

Le riflessioni che seguono nascono dall’Health Journalism Forum a cui ho partecipato lo scorso 28 novembre: un momento di confronto tra professionisti della sanità, giornalisti e pazienti.
Un’occasione preziosa per capire come evolve il racconto della salute in un tempo in cui la sfiducia cresce, i linguaggi si moltiplicano e il ruolo di chi comunica diventa sempre più cruciale.
1. MISINFORMATION: QUANDO IL SILENZIO DIVENTA COMPLICE
Oggi la sfiducia nelle fonti ufficiali non nasce soltanto dalle fake news, ma spesso dal silenzio di chi dovrebbe parlare per primo.
Quando un’istituzione scientifica, un medico o un ente sanitario non comunica in modo tempestivo, lascia uno spazio vuoto — e quello spazio viene rapidamente riempito da chi ha meno competenze ma più prontezza nel diffondere contenuti virali.
Le fake news non sono solo “bufale” isolate: sono costruzioni persuasive, pensate per attivare emozioni forti e semplificare la complessità.
E più tardi si interviene per contrastarle, più diventano difficili da sradicare.
Come dimostrano diversi studi di psicologia cognitiva, una volta interiorizzata, un’informazione errata tende a resistere anche di fronte alla smentita: si radica nella memoria emotiva più che in quella razionale.
Per questo, chi comunica salute deve anticipare, non inseguire.
Significa informare prima che l’allarme esploda, offrire spiegazioni prima che circolino interpretazioni errate e costruire un’abitudine alla trasparenza.
Le istituzioni spagnole rappresentano un esempio concreto: un’analisi pubblicata su Frontiers in Communication (Vázquez-Gestal et al., 2024) mostra come le autorità sanitarie regionali abbiano avviato campagne preventive e strategie di fact-checking sui social e su YouTube, anticipando la diffusione di disinformazione su vaccini, salute mentale e alimentazione.
La comunicazione sanitaria, in questo senso, non è solo reattiva ma educativa: serve a costruire fiducia prima che serva difenderla.
2. RACCONTARE LA SCIENZA: IL “COME” CONTA QUANTO IL “COSA”
Molti comunicatori e professionisti del settore sanitario si concentrano sul risultato delle ricerche: “Uno studio dimostra che…”.
Ma per costruire fiducia, non basta dire cosa scopre la scienza: bisogna spiegare come ci arriva.
Dietro a ogni scoperta ci sono ipotesi, revisioni, errori corretti, esperimenti ripetuti.
Mostrare questo processo — con parole semplici ma rigorose — aiuta chi legge o ascolta a capire che il rigore scientifico è fatto di metodo, non di infallibilità.
La scienza non è un dogma: è un percorso in continua verifica.
E raccontare questa dimensione umana, fatta di dubbi e passaggi, educa alla fiducia razionale, quella che nasce dalla comprensione del metodo, non dalla fede cieca nell’autorità.
Per esempio, dire “uno studio ha dimostrato che il microbiota influisce sull’umore” è utile.
Ma raccontare anche come è stato condotto lo studio, quali limiti ha e quali nuove domande apre, è ciò che fa la differenza tra informare e formare.
Il compito di chi comunica la scienza oggi è proprio questo: trasformare la complessità in chiarezza, senza ridurla a slogan.
3. IL NUOVO RUOLO DEI PAZIENTI: DALLA PARTECIPAZIONE ALLA CO-CREAZIONE
Uno dei temi più discussi all’Health Journalism Forum riguarda il ruolo attivo dei pazienti.
Oggi non sono più solo destinatari dell’informazione sanitaria, ma parte del processo stesso di costruzione della conoscenza.
Molti di loro, soprattutto nei casi di malattie rare, hanno trascorso anni alla ricerca di risposte.
Studiano, consultano letteratura scientifica, partecipano a forum e gruppi internazionali.
In diversi casi sono proprio i pazienti a informare i curanti su nuove ricerche, terapie sperimentali o linee guida aggiornate.
Eppure, persiste un certo paternalismo medico, che tende a minimizzare la voce di chi vive la malattia ogni giorno.
Un approccio che rischia di creare distanza e sfiducia.
La vera sfida è costruire una collaborazione paritaria.
Il sapere clinico e il sapere esperienziale non si escludono: si completano.
Solo riconoscendo questo dialogo si può parlare davvero di medicina partecipata, non come slogan, ma come pratica quotidiana.
4. Comunicare non è un di più: è parte del lavoro
“Non fai il tuo lavoro se non comunichi.”
Questa frase, citata durante il Forum, riassume perfettamente un cambio di paradigma.
Comunicare non è un accessorio del lavoro medico o scientifico: è parte integrante della responsabilità professionale.
Chi fa ricerca, clinica o formazione contribuisce a costruire la conoscenza pubblica. E quella conoscenza, se resta chiusa nei laboratori o nei convegni, perde gran parte del suo valore.
Eppure, oggi molti professionisti medico-sanitari che si espongono online vengono etichettati da colleghi o pazienti come “in cerca di visibilità”.
Una distorsione culturale che confonde la strategia comunicativa con la manipolazione, e la trasparenza con l’autopromozione.
Le tecniche e gli strumenti della comunicazione non servono a “convincere” o a “vendere”, ma a rendere la scienza comprensibile e utile.
E ignorarli, nel 2025, significa rinunciare a un canale fondamentale per l’educazione alla salute.
C’è poi un altro nodo: la difficoltà nel reperire fonti autorevoli, soprattutto per chi comunica la scienza senza essere specialista.
Il rischio è affidarsi a figure poco aggiornate o non qualificate, con conseguenze importanti sul linguaggio e sull’immaginario collettivo.
Un esempio emblematico è il modo in cui viene ancora raccontato l’autismo.
Si usano espressioni come “affetto da autismo” — come se fosse una malattia, non una condizione neurobiologica — o simboli superati come il puzzle blu.
In molti casi, queste narrazioni arrivano da fonti che godono di visibilità ma non riflettono lo stato aggiornato della ricerca.
👉 La comunicazione sanitaria etica e competente nasce solo dall’incontro tra conoscenza scientifica, aggiornamento continuo e consapevolezza linguistica.
5. Giornalisti e comunicatori: il filtro necessario
Non tutti possono — o devono — raccontare la scienza.
Il ruolo degli specialisti della comunicazione rimangono centrali come filtro e traduzione tra il linguaggio tecnico e quello quotidiano.
Non si tratta di “semplificare”, ma di interpretare senza distorcere.
Serve però collaborazione.
I medici non possono delegare completamente la comunicazione, e chi comunica ha bisogno del medico per garantire correttezza e precisione.
Quando un professionista sanitario affida tutto a un’agenzia o a un social media manager senza fornire contenuto clinico, il risultato è spesso una comunicazione piatta.
Allo stesso tempo, chi racconta la scienza senza competenze sanitarie rischia di enfatizzare, semplificare troppo o dare spazio a opinioni non verificate.
La qualità dell’informazione sanitaria dipende quindi da un equilibrio di ruoli: il medico o il ricercatore portano la competenza scientifica, chi si occupa di comunicazione come per esempio giornalisti e medical writer, costruiscono il linguaggio e garantiscono l’adattamento al pubblico di destinazione.
Quando c’è dialogo tra queste figure, la società ne guadagna in fiducia e consapevolezza.
Conclusione
Misinformation, fiducia, linguaggio e collaborazione non sono solo temi di comunicazione: sono questioni etiche.
Comunicare la scienza significa costruire un terreno comune tra chi sa e chi vuole capire, educando alla fiducia e al pensiero critico.
Anticipare invece di reagire, raccontare il metodo oltre ai risultati, collaborare con i pazienti e con chi comunica:
queste non sono solo strategie, ma atti di responsabilità.
In un mondo in cui chiunque può pubblicare, ma non tutti sanno verificare, comunicare bene la scienza è una forma di cura collettiva.
E, come ogni cura, richiede competenza, costanza e senso di responsabilità.
